Voci urbane è il blog di Bergamo per i Giovani, le Politiche Giovanili del Comune di Bergamo, un luogo di approfondimento e racconti!
Spesso si è veri solo di fronte ad un caffè fumante, ogni nostra parola svanisce meramente, come se non fosse mai esistita, mentre il sapore amaro dell'espresso si espande nella nostra ingorda e solitaria gola. Siamo dimentichi dell'universo durante questi semplici atti: così automatici, naturali, incarnano ciò che scandisce il nostro tempo. Ironico e inconclusivo riflettere su di esso, infatti durante la nostra permanenza terrena spendiamo più ore nel pensare che nell'agire.
La mascherina sul mio viso, seppure al momento immaginaria, cela la paresi che è il mio sorriso e ostacola la capacità di comunicare con gli altri abitanti di questa decadente e poetica Terra.
Anime portatrici di storie, dolori, momenti sporadici di umile felicità.
Durante i momenti che precedettero la totale assenza di contatto umano non mi ero mai resa conto di quanto ognuno di noi valesse, donasse ogni giorno un qualcosa di nuovo e vivido al mondo, osservasse l'universo e gli attribuisse sfumature uniche e imperdibili.
Questi sono gli scheletri delle mie opinioni che, danzanti, traballano nella mia mente mentre attendo il treno della mia ora d'oro, luogo errante, casa per i pendolari, finestra di molte vicissitudini. Sono adagiata placida su una delle panchine curve tra le mie sinapsi: Direzione Eden. Collocazione ambigua, dal retrogusto agrodolce, dimora del peccato e della redenzione, quasi come la pregheria in ginocchio di un agnostico.
Lì rifletto, godo delle beatitudini quotidiane, mi danno inutilmente e maledico chiunque la pensi diversamente.
Sono burrascosa, tempesta incessante, pioggia serena.
La quarantena.
I giorni di reclusione sono stati in realtà mezzo attraverso il quale raggiungere una diversa prospettiva, forse più eclettica e differente dalla normalità.
Le lunghe settimane di terrore mi hanno spinta ad ammirare l'ignoranza, ovvero la più straordinaria tra le doti, a coloro che non sanno è infatti riservato il miracolo della scoperta.
Ho appreso come venerare la banalità e la noia, terreno fertile per un seme che ancora deve germogliare, un sentimento o forse un'idea rivoluzionaria.
Ho sognato, progettato molto e compreso che il limite alla mia condizione umana risiede unicamente nella mia immaginazione.
Mi sono domandata come la nostra società possa basarsi solo sull'apparenza, essere talmente superficiale da condannare il diverso, anziché apprezzarlo. Se vivessimo costantemente come se fossimo su un piedistallo diventeremmo statue glaciali, cosparse d'alterigia e vanità. Quale sarebbe la posa a me assegnata allora, il mio cinismo o la mia naturalezza?
E allora, mentre mi appoggiavo svogliatamente sui miei cedevoli cuscini, sono andata in cerca della bellezza. Tra le pagine di un libro, tra i vicoli dei borghi che tempo fa avevo perlustrato, tra le essenze di tutte le varie culture che creano, insieme, un'armonia virtuosa. Nei dipinti, nelle sinfonie, nella fauna e nella flora, nelle onde, nella seta, nel lino, nell'immoralità, tanto liberatoria quanto illusoria. Cercavo le parole adatte per amare, per ricordare quest'epoca così stravagante e cruenta. Nel momento in cui i molti soffrono per la serenità dei pochi, quest'ultimi sono perdenti o vincitori?
Mi sono innamorata di questa esistenza, dono funesto, giorno per giorno, e ogni volta si palesavano a me esperienze sempre più splendide. Mi sono soffermata sulle pieghe serpentine delle foglie, sui canti canonici dei volatili, sui boccoli dei miei crini dorati, sulle domande che assillavano la mia tranquillità, la tenerezza di un sorriso pacato e genuino, la magnificenza dei luoghi sacri, che ci incutono un'inquietudine romantica e rinfrescante una volta varcata la loro soglia. Mi sono commossa nel guardare i molti volontari che, a fine giornata, con una più che giustificata arrendevolezza, levavano le protezioni e si carezzavano gli sfoghi sulla loro pelle estenuata. Ho intrecciato sempre più storie, fino a creare un'eco, forse quella dell'umanità stessa. Ho cercato, seppur invano, di ghermire le luci ridenti e speranzose la sera tardi, mentre osservavo il cielo e notavo come tendesse ad essere un po' più cupo ad ogni sirena d'ambulanza. Ho apprezzato il crogiolarmi nell'illusione di poter far sì che la pandemia terminasse e ad ognuno protesse essere restituito un pizzico di serenità, provavo talmente tanto disprezzo verso me stessa quando auspicavo soltanto il mio bene. E mi sono finalmente resa conto di quanto, prima dei fatidici 40 giorni di alienazione, non prestassi attenzione ai particolari, a come non andassi sempre in cerca della vera vita, dell'arte inenarrabile e da ammirare poiché inutile, almeno secondo Oscar Wilde, che ho scoperto essere una costante necessità nella mia insignificante seppur unica vita. Tutti noi siamo infatti esseri irripetibili, i nostri geni, le nostre caratteristiche, il nostro intelletto è un unicum che non può essere clonato. Quest'affermazione è allo stesso tempo distruttiva e allettante, leggendola nasce in noi il desiderio di compiere qualcosa in grado di comandare le masse, per poi sentirci frenati da un insolito timore, quello di fallire e non essere ricordati. Ho paura di essere dimenticata, che il mio nome non venga più pronunciato, di non aver donato al mondo una sorta di evoluzione, di non aver celebrato il mio tempo, fuggente e relativo. E la morte? Durante le ore passate a creare congetture su di essa, ho continuato a ripetere come l'eternità non fosse per me gloriosa, o traguardo paragonabile ai Campi Elisi, bensì immortale Purgatorio. Mi sono chiesta di cosa sappiano gli spazi temporali che separano gli attimi, da cosa siano composti i momenti privi di qualsiasi emozione, di che colore sia l'apatia e a quale sinfonia appartenga l'anedonia.
Ho avuto nostalgia della convivialità, delle risate, delle passeggiate e dei dibattiti con i miei cari, per poi ringraziare i pochi attimi di solitudine a me concessi. Prima dell'otto marzo provavo molta malinconia nei confronti della lontananza, dell'assenza di un'imminente incombenza, dei logoranti pensieri che prendevano forma sotto le mie palpebre durante le tenebre solitarie.
La quarantena è stata come un'eterna nottata di primavera, o forse d'autunno, chi mai può dirlo.
Sembra strano e alquanto sarcastico descrivere la mia esistenza con un prima e un dopo, difatti sono un'abitante della Terra di Mezzo, colei che offre caos e mai sollievo, scombussola le nostre coordinate con i suoi prati verdi smeraldo e i suoi specchi d'acqua cristallini, tanto ingannevoli quanto splendidi.
L'isolamento ha funto da maggese, il campo della mia anima è stato messo a riposo, affinché comprendessi quanto la confusione sia fondamentale, come tutto sia puro e raro.
Al momento godo della mia gagliardia. Essere adolescenti non ha spiegazioni, unisce passione e delicatezza, le responsabilità non gravano ancora del tutto sulle nostre spalle, è l'adorazione sfrenata dell'edonismo, la ricerca di una tentazione perduta, forse la risposta alla moltitudine delle nostre domande poste senza tregua, la Via Lattea sembra cavalcare le nostre iridi mentre osserviamo il cielo, sorpresi dopo aver appreso d'essere così nulli. Il mediocre si incontra con l'eccellente.
Siamo infatti funamboli in equilibrio precario.
La gioventù non è altro che una melodia, “September”degli Earth, Wind and Fire forse? Oppure “Wonderwall” degli Oasis?
Esser giovani significa fuggire da una realtà razionale, adulta e complicata, per poi rifugiarsi nel tepore di un cocente fuoco, in mano un libro dal profumo esotico e in sottofondo Mozart o i Bee Gees. Evitare gli stereotipi tediosi, e infine crearne di nuovi e più folli.
Ci sentiamo incompleti ma siamo soltanto giovani.
Quindi, dopo tanti mesi di lontananza dalla realtà, ora usciamo a rivedere le stelle.
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