Voci urbane è il blog di Bergamo per i Giovani, le Politiche Giovanili del Comune di Bergamo, un luogo di approfondimento e racconti!
Liceo S. Filippo Lussana
Sette anni sono passati dalla diffusione del Virus e io che di anni ne ho ormai ventuno dormo quasi tutti le notti in un posto diverso, cercando di sopravvivere come meglio posso. Lo chiamiamo semplicemente così: il Virus, con la lettera maiuscola, perché ormai tutti sanno che cos'è e non c'è possibilità di confondersi. Non è più un segreto il fatto che a diffonderlo sia stato il governo: la popolazione cresceva in modo preoccupante e le risorse scarseggiavano, e cos'è meglio di un virus per sterminare parte del genere umano? Nulla, a meno che qualcosa non vada storto e che la situazione non sfugga di mano. Presto non riuscirono più a controllarlo: il prezioso virus che avrebbe dovuto eliminare gli individui deboli iniziò ad uccidere chiunque, diffondendosi a velocità allarmante. Ci dissero che andava tutto bene, che erano vicini alla scoperta della cura: tutte menzogne; rinunciarono a cercare un rimedio e lasciarono il mondo andare alla deriva.
La gente divenne diffidente, sospettosa, pronta a tutto pur di ottenere qualcosa di utile per sé, talvolta brutale. Le città vennero abbandonate: tutt'ora i sani cercano di stare lontani dai malati, i malati più tenaci cercano in modo per guarire, i più realisti si lasciano morire. Poi ci sono quelli come me: gli Immuni, su cui il Virus non ha effetto a causa di chissà quale strana mutazione genetica, invidiati e odiati dalla gente comune. Ma non facciamo una vita tanto migliore: procurarsi di che vivere è una lotta giornaliera, e come se non bastasse si è diffusa la ridicola e primitiva credenza che il nostro sangue guarisca dal Virus.
Sto ancora cercando di svegliarmi dal mio torpore quando un rumore mi riscuote dai miei pensieri. Scatto sull'attenti e allungo una mano verso la sbarra di ferro trovata nei paraggi la sera prima, l'altra verso lo zaino pronta alla fuga. Fisso la porta scrostata della casa abbandonata in cui mi sono rifugiata, da dove il rumore proviene: qualcuno sta cercando di aprirla. Trattengo il respiro e deglutisco. Sento ogni muscolo tendersi e il sangue pompare nelle vene. La porta si apre con uno scricchiolio, lentamente.
Non ti muovere.- avverto. La mia voce è ferma e minacciosa, ma ho faticato a nascondere un tremito. Lo sconosciuto sussulta e si volta di scatto verso la mia figura accovacciata; riesco a vedere lo scintillio dei suoi occhi che si spalancano nella penombra. - Non farmi male, ti prego- implora con un filo di voce fremente di paura. Mi alzo e avanzo stringendo la sbarra nella mano. É una ragazzina. Attorno ai quattordici anni, con enormi occhi scuri e spaventati su un volto pallido e scarno incorniciato da capelli color ebano, i vestiti troppo grandi e sgualciti che ricadono sul corpo magro come pelle di elefante. Abbasso la mano armata. -Sei malata?- domando, avvicinandomi. Lei però indietreggia: -E tu?- replica. È astuta. L’aria è tesa mentre ci scrutiamo a debita distanza, diffidenti, quando lo sguardo mi cade sulla spessa e lucida cicatrice di forma circolare impressa sulla sua pelle, appena sotto la clavicola: l'hanno marchiata a fuoco come le bestie, per renderla riconoscibile agli altri. - Sei un'Immune- osservo e lei si affretta a nascondere lo sfregio. - Non preoccuparti,- la rassicuro, -lo sono anche io, ma devi credermi sulla parola: non ho modo di dimostrartelo.-
La ragazzina mi fissa per alcuni secondi con scetticismo, valutando la situazione: riesco quasi a sentire il rumore degli ingranaggi che si muovono nella sua testa. Poi a quanto pare decide di fidarsi: - Mi chiamo Beth- dice. Sembra estremamente stanca e vederla così piccola e impaurita mi provoca una morsa allo stomaco. -Hai fame, Beth?- Addolcisco il tono voce e apro lo zaino, estraendo quel poco che sono riuscita a procurarmi negli ultimi giorni: del pane, una lattina di zuppa, qualche mela. Gli occhi scuri di Beth si illuminano mentre la invito a sedersi di fianco a me tra le coperte e le porgo un cucchiaio; non oso immaginare quando sia stata l’ultima volta che ha toccato cibo. Per un po’ la osservo mangiare con voracità, gli occhi chiusi, sforzandosi di masticare lentamente; poi decido di indagare.
Lei apre gli occhi e mi fissa; ha uno sguardo talmente duro e sicuro di sé che fatico a credere che la voce spaventata e supplicante che ho sentito poco fa sia uscita dalle sue labbra. -Un gruppo di infetti ha scoperto che sono Immune e mi ha catturata- risponde a bocca piena, porgendomi metà della pagnotta di pane che le ho offerto. -Progettavano di uccidermi, credo. Mi hanno marchiata per rendermi riconoscibile in caso fossi scappata... infatti sono riuscita a fuggire. Non è stato così difficile, in realtà: dopotutto sono malati. Sono deboli.- Fa spallucce e addenta una mela. Tenta chiaramente di sminuire la sua impresa, ma è evidente quanto la paura l’abbia segnata. Mi ricorda mia sorella minore: impetuosa, ribelle, coraggiosa. Con una sostanziale differenza: lei non era immune.
-Come sei finita qui? Non conosci altra gente come noi?- -Certo che sì, ma non possiamo vivere e spostarci in gruppo. Per sicurezza, sai: cerchiamo di essere discreti. Però ci teniamo in contatto e ci incontriamo una volta alla settimana a... in un posto. - Non voglio darle troppe informazioni: dopo tutto non la conosco e non so se posso fidarmi ciecamente. Beth rimane in silenzio per qualche secondo, pensierosa, fissando le pieghe della coperta. Ci disegna sopra ghirigori con la punta delle dita.
È una richiesta affrettata e rischiosa e mi spiazza un po’, ma in fondo la capisco: si sente sola e insicura. Ha bisogno di contatti umani, magari di un po’ di calore. Io stessa mi sento così da fin da troppo tempo. Guardo questa ragazzina temeraria e un impeto di affetto mi smuove dentro, un fiore che sboccia sotto lo sterno, dove da anni la terra è arida. Guardo questa ragazzina temeraria e vedo me stessa sette anni fa. Ho perso il conto delle volte in cui non sapevo cosa fare e avrei voluto qualcuno accanto, qualcuno a cui chiedere consiglio; è impossibile dimenticare il senso di
abbandono, di confusione e di smarrimento che ti assale fino a stordirti, così come il terrore ansioso che sopraggiunge con la consapevolezza di essere completamente solo. Non posso permettere che una persona indifesa rimanga abbandonato a se stessa: forse ormai agli altri, nel mondo, non importa che dei propri interessi, ma non a me. Sono ancora umana. -Sai, penso che in fondo due persone non attirino poi così tanta attenzione. E poi ho bisogno di un po’ di compagnia: per quanto ormai io sia un esperta della sopravvivenza una mano mi farebbe comodo.-
Le ombre che le strisciano sulle guance la fanno sembrare ancora più più magra, ma quando sorride le si illumina il volto. Ha uno di quei sorrisi che non si limitano alle labbra ma coinvolgono gli occhi, gli zigomi, le sopracciglia; un sorriso contagioso, quindi sorrido anche io. -Grazie- bisbiglia, e la sua voce trabocca di riconoscenza. Avevo dimenticato quanto compiere un bel gesto per qualcun altro possa rendere felici. Vado a sbirciare dalla finestra: fuori non c’è anima viva. Poi guardo la mia nuova compagna di avventure mentre il sole già alto illumina la stanza spoglia e mi sento rinvigorita da una nuova forza: dovrò badare a lei, ma lei baderà a me.
È ora di andare.
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